Come
il racconto La
vitturina del ‘56, anche questo è legato alla memoria di mio padre; è una delle storie che mi raccontava,
il personaggio in qualche modo era
esistito e si conservava memoria di un paio di frasi che qui vengono riportate.
L’abito
Dalla porta a vetri del salone si poteva ben guardare tutta la piazza, rettangolare,
lunga, distesa, con il suo ampio
marciapiede, la strada che lo costeggiava, il terrazzo del municipio, la
scalinata che portava alla chiesa, e i vecchi seduti e appiccicati alle entrate
dei due circoli, quello dei nobili e quello comunista.
Mentre Pinuzzo, il barbiere, insaponava la
faccia di Carmelo, Salvatore scrutava fuori osservando il passeggio: “vedo don
Vito che si sta dirigendo verso il salone, preparati perché tiene la barba
lunga”.
“Ti
sbagli proprio” disse Pinuzzo “verrà qua tra sette giorni, quando la barba sarà
ancora più lunga. Se la fa radere solo due volte al mese. Arriva, mi fa
sprecare una cartata di sapone, mi fa lavorare quanto tre barbe e mi paga una
barba sola e si guarda bene dal dare una mancia al ragazzino che lavora in
bottega. Sono le undici e a quest’ora andrà a leggersi il giornale a sbafo”.
“Vero è” disse Salvatore “si è andato a
posizionare davanti alla bacheca del circolo comunista a leggere l’Unità. Ma
non è democristiano!?”
“Fottutissimo
democristiano è” disse Pinuzzo “ma la sua tirchieria gli impedisce di comprarsi
il giornale”.
“E
non se lo può andare a leggere gratis al circolo dei nobili, comodamente
seduto?” disse Carmelo con la sua bocca un po’ colpita dal sapone.
“Figurati!
Quelli del circolo dei nobili appena lo vedono gli ricordano che deve pagare la
quota; e lui forse l’ultima che ha pagato risale a quando c’era il Re, ora è da
quindici anni che abbiamo la Repubblica. Io glie l’ho chiesto. Come fa don Vito
a fidarsi di quello che dicono nel giornale i comunisti? E lui, sorridendo come
sa fare, risponde: ma tengo la testa e interpreto al contrario quello che
dicono. L’altro giornale a sbafo che
legge è l’Espresso che io tengo nel
salone. Si siede, e se ci sono altri clienti li fa passare avanti, e
legge. E che debbo fare, lo debbo cacciare!?”, concluse il barbiere un
po’ innervosito.
“Calmati
Pinuzzo e non mi tagliare con il rasoio” disse Carmelo che sentiva la lama sul
collo “piuttosto, don Vito i capelli da te se li fa tagliare?”.
“Per
Natale, Pasqua e per la Madonna Assunta” imprecò Pinuzzo. “E poi dice sempre: corti, corti, vai su con
la macchinetta. In pratica gli faccio una rapata come quella che si fa ai
militari di leva.” Cominciarono a ridere
tutti e tre; poi Salvatore aggiunse: “ma quella razza di vestito grigio che
tiene sempre addosso, liso, con le maniche quasi sdrucite. Possibile che con
tutti i soldi e le proprietà che tiene non ne compra un altro? Da che mi
ricordo io è sempre lo stesso vestito. Dovrà pure cambiarsi, dovrà pure lavarlo
una volta tanto. Tu, che sei il barbiere,
e ti avvicini alla persona, non senti
puzza di questo vestito?”
Pinuzzo stette soprapensiero e poi: “a dire il
vero è una persona pulita e non emana cattivo odore, ma concordo con voi, il
vestito è sempre lo stesso, pulito ma sempre lo stesso.”
“E
come si spiega?” disse Carmelo “magari ne ha due, tutte e due grigi e tutte due
sdruciti”.
“E’
un mistero insolubile!” sospiro Salvatore.
“Basta
chiedere in lavanderia” disse una vocetta, ed era quella del ragazzo di bottega
che aveva sentito un po’ divertito tutta la discussione.
“E’
vero” disse Carmelo “vedete che la voce dell’innocenza è più saggia di noi”.
“Ma
voi però siete curiosi forti” disse Pinuzzo, e ripresero a ridere.
Ed
era vero, la curiosità a Carmelo e Salvatore gli rosicava il cervello, e quando
uscirono dal salone si avviarono verso la lavanderia di Mariangela. Salvatore già da un pezzo faceva il filo a
Mariangela, non passava giorno che non portava da lei qualche camicia e ne
aveva giusto una da ritirare.
“Senti,
Ngiluzza, ti offendi se ti faccio una domanda riservata?” disse Salvatore.
“Dipenne”
disse la ragazza con un sorrisetto quasi malizioso.
“Dimmi
na cosa, ogni quanto don Vito porta il suo vestito a lavare in lavanderia”.
“Don
Vito! E cu è?”
“Non
lo conosci! Possibile! Senti, chiama a tua madre, magari lei lo conosce”.
Mariangela
che si aspettava tutt’altre domande da Salvatore, e un po’ scocciata, andò a
chiamare sua madre, e l’Assunta arrivò un po’ tutta accaldata dalla stireria.
“Mi
deve scusare Signora” disse Salvatore con aria deferente “volevo fare una
domanda indiscreta”.
“E
io la risposta te la do subito. La devi smettere di girare attorno a mia
figlia, a meno che non hai intenzioni serie”.
“No,
no, certo, certo. Ma di questo parliamo in un altro momento. Era un’altra cosa
che volevo chiedere”.
“Parla”
disse l’Assunta con aria sbrigativa.
“Mi
può dire ogni quanto don Vito porta qui a lavare il suo vestito”.
“Don
Vito!? Ma don Vito non ha mai messo piede qua dentro. Se poi considerate che
questa è la sola lavanderia che c’è in paese, non so proprio come fa. Sicuramente
si lava tutto da solo, e deve avere un sistema di lavarisi anche il vestito. Se
lo vedete me lo salutate, gli chiedete come fa e poi me lo venite a dire”. Li
lasciò storditi e se ne ritornò nell’altra stanza per riprendere a stirare.
Carmelo e Salvatore precipitarono in un buio ancora più fitto. Più volte capitò
di parlare insieme di quel mistero e tutte le volte non ne vennero a capo.
Pur dentro il suo vestito grigio e sdrucito,
don Vito aveva un modo elegante di porgersi, di dialogare, di camminare con la
sua alta e legnosa statura. Uno dei pochi costosi vizi che si concedeva era quello di bere un
caffè nel bar centrale della piazza, alle dieci in punto del mattino, il solo
caffè della giornata, rigorosamente stretto e amaro. Se lo sorbiva lentamente assaporando. E una mattina alle dieci in punto anche
Salvatore e Carmelo andarono a prendere un caffè.
“Come
vanno gli studi?” disse don Vito rivolgendosi a Carmelo.
“Gli
ultimi tre esami, don Vito e poi la tesi”.
“Bene!
E poi la laurea, e poi le cause, i litigi e qualche soldo da guadagnare sui
litigi. Non mancano liti nel nostro paese. E prima o poi ti verrò a trovare
anch’io”, disse don Vito, che amava chiacchierare con i giovani e a loro si rivolgeva sempre con cordialità. Ma
quell’impudente di Salvatore approfittò di quel momento di cordialità per porre a don Vito la domanda che poteva
risolvere il mistero: “Mi deve scusare, don Vito, posso fargli una domanda
indiscreta?”.
“Maleducata
vuoi dire?” disse don Vito sorridendo.
“Quasi
maleducata.” disse Salvatore ricambiando appena al sorriso.
“Falla”
disse secco don Vito.
Salvatore
inspirò aria per prendere coraggio e poi: “Voi don Vito, siete una persona
ricca e …” e Salvatore s’inceppò e non seppe andare avanti.
“E …
e certu “ fece do Vito “lo puoi dire
benissimo, se scendi dalla contrada del Vallone tutte quelle terre sono mie e
qualche frutto lo danno”.
“Ecco,
dicevo” fece Salvatore, aiutato dalle ultime frasi di don Vito “come mai voi
così ricco non vi comprate nuovi vestiti?”
“Vuoi
dire, come mai vado in giro con lo
stesso vestito”, disse don Vito con un tono che era diventato leggermente
acido.
“Beh
… sì” disse timorosamente Salvatore, mentre Carmelo voleva sprofondare per la
brutta figura e la mancanza di rispetto in cui lo stava precipitando il suo
amico.
“Bene
cari ragazzi, voi sapete il detto che l’abito non fa il monaco. Anche se poi
tanta gente indossa abiti nuovi per vantare la loro persona e farsi credere più
importanti di quello che sono, poi in definitiva restano quello che sono. Voi
lo sapete che io sono nobile di nascita, facoltoso, ricco e che mi posso
comprare parecchio degli altri se voglio. Ma sono risparmioso, mentre voi siete scialacquati e per questo
motivo poveri siete e poveri restate.” Finito di parlare alzò la mano destra
facendo un cenno che poteva essere insieme una benedizione, un saluto ed anche
un basta .
Salvatore restò un po’ a bocca aperta, Carmelo
si riprendeva a stento dal rossore che le domande indiscrete di Salvatore gli
avevano provocato e disse: “E bravo, abbiamo fatto la figura dei minchioni”.
Solo raramente parlarono di nuovo di don Vito,
il mistero continuò a restare insolubile e pesava. Non poterono però fare a meno
di raccontare tutto a Pinuzzo il barbiere che disse: “E forse che ci avi
ragione quel fottutissimo di don Vito. Uno
si deve vestire bene e di lusso in posti dove non è conosciuto, per fasi
apprezzare, altrimenti sei considerato
un pezzente. Mentre nel posto dove ti conoscono tutti basta essere dignitosi e
puliti. Mi pare che il ragionamento fila, eccome se fila. Però don Vito è
sempre un fottutissimo ricco e democristiano.”
Alcuni mesi dopo Carmelo si recò a Palermo per
discutere la sua tesi di laurea, aveva rifiutato di essere accompagnato dal
codazzo dei parenti dicendo che si sarebbe trovato a disagio con tanti che lo
guardavano, ed aveva accettato solo la compagnia del suo amico Salvatore. Il punteggio di Laurea era stato vicinissimo
al massimo, ciò gli aveva lasciato l’amaro in bocca, ci teneva tanto a quel
massimo dei voti e non esserci arrivato per un paio di punti aveva il sapore di
una beffa. Passeggiando su via Maqueda con Salvatore ora sentiva allontanarsi
l’amarezza ed arrivare il senso forte di alleggerimento, la perdita di peso, lo
stordimento del trovarsi di botto in un’altra realtà, non era più uno studente,
lo era stato per un’intera vita. E ora?
“C’è
don Vito” quasi gridò Salvatore che lo aveva scorto di lontano; avanzava con un foglio di carta bollata
arrotolata a tubo e con l’alta andatura di un antico senatore romano, la barba
era rasata di fresco, ma il vestito era sempre lo stesso, grigio, liso e
sdrucito. Quando fu vicino a loro s’illuminò di quel confidenziale sorriso che
sorge spontaneo a chi incontra in città un suo compaesano.
“Don
Vito, anche voi qua!?” disse Carmelo.
“Scommetto
che ti sei laureato”.
“Proprio
oggi stesso, usciamo appena adesso dall’Università”
“Ti
posso chiedere con che voto?” disse don Vito.
“Centotto
su centodieci” rispose Carmelo con un sospiro.
“Si
capisce che sono stati cornuti i tuoi professori. Ma bisogna festeggiare lo
stesso, venite a bere qualche cosa con me, a fare un brindisi di buon augurio”,
disse don Vito con aria amichevole e compiaciuta.
Salvatore e Carmelo erano sbalorditi, don Vito
che rompeva la sua tradizionale avarizia e che li invitava a bere, era
impossibile rinunciare a un simile invito. Entrarono in uno dei più lussuosi
caffè di Palermo e don Vito ordinò spumante per tre, e verso il cameriere
aggiunse: “il migliore”. Conversò con loro per altri cinque minuti, poi pagò e
disse che li doveva lasciare perché doveva portare quella carta bollata in un
ufficio. E Salvatore che non se la potette tenere neanche quella volta, disse:
“Si ricorda don Vito che mesi addietro gli feci una domanda maleducata sul
vestito?”
“Sì,
mi ricordo”
“E
lei rispose che non aveva bisogno perché in paese lo conoscevano tutti”.
“Certo.
Ma vedi qua a Palermo me ne fotto, perché non mi conosce nessuno”. Con la sua
mano benedicente li salutò e li lasciò di stucco.
12/03/13
francesco zaffuto
immagine - acquerello - spaventapasseri e tronco d'ulivo
SEMPLICEMENTE GUSTOSO! BRAVO CICCIO
RispondiElimina“Parabola vuol dire tarantola ballerina”. È un antico detto popolare con cui mio nonno terminava racconti particolari e belli come il tuo. La vittima della tarantola è costretta a girare vorticosamente in tondo, senza costrutto. Allo stesso modo, a chi sta cercando una verità capita di dover tornare al punto di partenza dove tutto è avvolto nel dubbio.
RispondiEliminaCaspita! Il luogo dove tutti credono di conoscerti in realtà è dove ti apprezzano e conoscono meno! Il classico profeta in piazza.
RispondiEliminaHo pensato al Verga, uno dei miei scrittori preferiti. Ho letto molto piacevolmente e tutto d'un fiato il tuo racconto.
Eccomi di ritorno.
RispondiEliminaVero, "nemo propheta in patria". Splendidi sia il post che l'acquerello.